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Su “Il Mattino“, Lucia Valenzi racconta il rapporto speciale con il padre, il Sindaco artista Maurizio Valenzi, nell’intervista con la giornalista Maria Chiara Ausilio. Di seguito l’intera intervista.

 

“Un rapporto di amore e sintonia quello tra Lucia Valenzi e papà Maurizio, primo sindaco comunista di Napoli, a Palazzo San Giacomo dal ‘75 all’83, pittore eccellente al punto da convincere il ministero dei Beni culturali a porre sotto tutela la sua collezione di dipinti. Lucia, gran passione per l’arte anche lei, ricorda con tenerezza i momenti vissuti insieme, le vacanze a Ischia con i “tunisini”, le uscite pomeridiane per andare al cinema o a teatro, la bellezza di un quadro e l’emozione che a entrambi riusciva a trasmettere.

La prima cosa che le viene in mente quando pensa a suo padre. «Lo straordinario senso dell’ironia, la capacità che aveva di sdrammatizzare anche le situazioni più complicate con battute pronte e intelligenti. Riusciva sempre a strapparmi un sorriso».

Quanto tempo trascorrevate insieme? «Abbastanza. I miei problemi fisici mi rendevano poco autonoma e allora per una questione di praticità, e di assistenza, il tempo libero in buona parte lo passavo con lui, e con mia madre naturalmente».

Un papà presente, insomma. «Direi proprio di sì. Nonostante i suoi impegni, nei momenti cruciali c’era sempre. Ho avuto la poliomielite, andavo e venivo dagli ospedali, purtroppo inutilmente. E però lui insisteva, ricordo le trasferte a Firenze, lì c’era un ortopedico rinomato, mio padre riponeva in lui molta fiducia. Non so quante volte ci siamo andati».

Lei invece ne avrebbe fatto a meno? «Ma no, anzi: il punto non era l’indiscussa abilità degli specialisti ma la mia patologia per la quale si poteva fare ben poco. In ogni caso era sempre papà a mantenere i rapporti con i medici, a indirizzare le terapie, a rassicurare tutti».

Un sostegno, insomma. «Non avrei potuto farne a meno. Nei momenti di scoraggiamento mi diceva sempre: “Lucia, non ti devi preoccupare: non puoi camminare ma hai il cervello”. Per lui, fine intellettuale, una testa pensante era quasi più importante delle gambe».

Quante volte avete litigato? «Raramente».

In quali occasioni? «Forse litigare non è il verbo giusto, i nostri erano confronti, anche scontri, ma sempre ideologici e basati sul ragionamento».

E da bambina? «C’è un episodio che non dimentico».

Racconti. «Avrò avuto sette, massimo otto anni. Papà, tra decine e decine di libri, custodiva un volumetto d’arte sulla pittura giapponese, o forse cinese, manco me lo ricordo. Ci teneva assai. Un pomeriggio, armata di pennarelli, lo trovai sulla sua scrivania e iniziai a colorarlo come una pazza».

Quale fu la reazione di Valenzi? «Mai visto così infuriato. Mi strappò il volumetto dalle mani e iniziò a prendersela anche con mia madre». E la piccola Lucia? «Scoppiai a piangere naturalmente».

L’aveva fatta grossa. «Non ero affatto mortificata. Anzi. Le mie erano lacrime di rabbia, volevo indietro quel libro a tutti i costi per continuare la mia “opera pittorica”».

Come andò a finire? «La ebbi vinta ovviamente. Papà vedendomi così disperata me lo restituì quasi subito. Non solo ricominciai a scarabocchiarlo ma gli diedi un pennarello e pretesi, e ottenni, che lo facesse pure lui. Dell’arte cinese – o giapponese che fu – non restò più traccia. L’episodio gli rimase talmente impresso che lo raccontava sempre per spiegare come si diventa schiavi dei figli».

Lucia Valenzi: la figlia del sindaco. «Una volta però lo sfizio me lo sono anche tolto. Era già molto anziano quando un giovanissimo compagno di sezione, sentendo Valenzi, gli disse “Il padre di Lucia?”. Ironia a parte, la pressione sulla nostra famiglia – in casa e fuori – era assai forte. Da tutti i punti di vista. Fu così che mi convinsi ad andare a vivere altrove».

Dove? «Presi una casa con alcuni amici. Ero già grande, avevo circa 27 anni: da tempo sentivo forte il desiderio di autonomia ma l’handicap rendeva tutto più difficile. Il ruolo di mio padre, poi, complicava ulteriormente la mia vita di relazioni».

Perché? «Erano anni difficili, quelli del terrorismo, della paura: la casa sempre sotto controllo, le auto blindate, gli agenti della Digos vivevano quasi con noi. Anche ricevere un amico diventava complicato. Presi la palla al balzo e comunicai ai miei genitori che sarei andata via da casa».

Come la presero? «Non bene. Soprattutto mio padre anche se poi alla fine fu lui a convincere mia madre che stavo facendo la cosa giusta. “Perché vuoi andartene? – mi diceva – Non stai bene qui con noi?”, si dispiacque molto ma per me fu una scelta fondamentale. E lui ne era consapevole».

Il dispiacere della famiglia che comincia a separarsi. «Mio padre ha sempre avuto un grande senso degli affetti, parenti e amici, la sua vita è stata un intreccio di relazioni intense. Non potrò mai dimenticare le lunghe tavolate che organizzava d’estate, quando si andava in vacanza a Forio d’Ischia».

Chi erano i commensali? «Il gruppo di Tunisi, quelli che erano con lui durante la guerra, non mancava mai. E poi tanti altri tra parenti e amici di partito. Rapporti fortissimi che ha mantenuto fino alla morte. Non tutti lo sanno, mio padre era tunisino, eppure si è sempre sentito napoletano. Tant’è che non è mai voluto andare via da qui benché la vita politica lo portasse sempre più verso Roma».

Ultima curiosità: Valenzi nonno. «Fu una gioia enorme. Mia figlia è nata quando papà aveva più di 80 anni e non ci contava più. Un giorno, tenendola in braccio, mi disse: “Ora so cos’è l’amore”.